giovedì 24 settembre 2009

Le api di Licia


Caspita, ma che ore sono? Le sei del mattino? E perché mio padre dal giardino ci chiama tutti a gran voce? E’ successo qualcosa? Con il cuore in gola, mi infilo un pantalone e una maglietta e mi fiondo sull’aia, dove tutto pare tranquillo, a parte mio padre che con il naso in su, saltella intorno ad un grappolo nero che pare appartenere all’albero di prugne, urlando uno dopo l’altro i nostri nomi, come se si trattasse di una questione della massima urgenza … L’aia è molto grande e raggiungerlo richiede qualche istante, ma quando sono lì resto estasiata … è uno sciame d’api che si è posato su un ramo, facendo per cos’ dire quadrato a protezione della regina … Sono quasi tutte lì, tranne qualche ape esploratrice, che va e viene, alternandosi con le compagne.
Mio padre, che in gioventù si era occupato di api insieme a Rocco, aveva ancora tutta l’attrezzatura, tuta, maschere, affumicatore e, soprattutto, arnie, tante, da tempo in disuso a causa della tignola che a suo tempo aveva distrutto le comunità e, non volendo perdere di vista lo sciame, ci chiamava perché portassimo lì tutte le cose per catturarlo.
Rocco era un suo collaboratore analfabeta, di straordinaria intelligenza, che si portò perfino in viaggio di nozze, ufficialmente per farsi aiutare con le valige, in realtà fargli vedere un pezzetto di Italia, visto che non si era mai mosso dal suo podere.
Babbo ed io ci guardavamo e in un attimo ci capimmo, io rimasi di guardia allo sciame e lui cercò tra le casette da tempo abbandonate in un angolo dell’aia quella che avesse un aspetto migliore. La portò sotto l’albero ed insieme ne strofinammo accuratamente il fondo e le pareti con delle foglie di menta, in modo che acquistassero un odore invitante e, quando arrivò anche mio fratello, lo mandammo a prendere tute e maschere, che indossammo velocemente. Mio padre ci disse che se gli insetti ci fossero venuti addosso avremmo dovuto restare immobili perché difficilmente ci avrebbero punti, dato che le api, che hanno un pungiglione fatto ad uncino, che resta incastrato nella parte punta, dopo aver punto muoiono. Quindi pungono solo quando il movimento fa intravedere un pericolo incombente sull'alveare.
Quando fummo tutti pronti, mio padre scosse energicamente il ramo e il grappolo di api cadde nella cassetta, che ci affrettammo a ricoprire con il suo tettuccio. Moltissime api però erano volate via e potete immaginare il ronzio che si scatenò in quel momento, la paura nel vedermi circondata da tanti insetti… ma fedele alle istruzioni ricevute (e grazie soprattutto al fatto di aver ricevuto ottime tuta e maschera), non ebbi neppure una puntura, mentre mio fratello, che non era stato altrettanto fortunato e nella cui maschera erano entrate delle api - forse a causa di qualche buco o forse perché non l'aveva indossata in modo corretto - era terrorizzato e si spogliò in tutta fretta nonostante fosse al centro dello sciame, per cui si beccò un sacco di punture ed espose al rischio di essere punti anche gli altri, visto che fuggendo aveva trascinato con sé verso casa un folto gruppo di api inferocite. Il giorno dopo era gonfio come un pallone e gli venne proibito di avvicinarsi mai più ad un alveare.
Così lui dimenticò l'esistenza di quello sciame e io, invece, mi appassionai, tanto da dedicarmi al loro allevamento fino a quando non ho aspettato il primo figlio e non potevo più sollevare grandi pesi.

sabato 23 maggio 2009

Storia di un quadro


Non si vede benissimo, rappresenta un girotondo di bambini su un prato. E' un quadro che mi è particolarmente caro, perché ha una storia un po' insolita. Era un quadro che stava nel salotto del fratello di mia suocera, un vecchio signore rinsecchito, rimasto vedovo durante la guerra della giovane moglie incinta morta tra le macerie della loro casa colpita da una bomba. Non si era mai risposato e si era dedicato alla politica ed all'economia, rivestendo ruoli importanti politici ed occupando prestigiose (e remunerative) poltrone. Di quella carriera, Zio Guido aveva conservato un certo orgoglio ed una certa severità e mia suocera, una deliziosa donnina minuta, sempre sorridente, pendeva dalle sue labbra, come aveva fatto per tutta la vita. Unici superstiti della loro famiglia, si incontravano ogni paio di mesi, quando mia suocera riusciva a convincere qualcuno dei figli ad accompagnarla nella visita. Quando toccava a noi, pur non nutrendo particolare simpatia per quell'uomo, siccome lavoravo a pochi passi da casa sua, andavo anche io e in salotto, mentre i due vecchietti parlavano di personaggi della loro vita o di nipoti vari, io mi incantavo a guardare quel piccolo quadro, che pareva così fuori posto in quella casa austera, che odorava di brodo vegetale e, quindi, di vecchiaia.
Quando il povero zio Guido morì, pur tra le lacrime, mia suocera si unì agli altri parenti speranzosi per la lettura del testamento... sorpresa! Il povero zio Guido, che in vita aveva promesso a questo e a quello dei nipoti di ricordarsi di lui o di lei, aveva lasciato tutto il suo patrimonio al parroco di una vicina chiesa e alla Basilica di Pompei, lasciando ai nipoti l'onere di svuotare la casa dei libri lasciati a quattro o cinque nipoti (tra cui Giulio) insieme a trecentomila lire a testa, stabilendo che tutto il resto venisse venduto all'asta a beneficio di un istituto di ciechi.
Qualche giorno prima della data fissata per la vendita andammo a casa sua a vedere le cose esposte, faceva rabbia e malinconia veder esposti ricordi di famiglia, che avrebbero potuto andare a qualcuno dei nipoti, che certamente li avrebbero apprezzati e ben custoditi, ma decidemmo di non adare neppure ad assistere a quella vendita, per non vedere lo scempio che sarebbe stato fatto di quei ricordi.
Avevmo confidato all'esecutore testamentario il nostro desiderio di acquistare un paio di quadri, ma pur comprendendo le ragioni di mia suocera e quelle di Giulio, non poteva derogare dalle istruzioni impartite dal testatore.
Si può immaginare la nostra sorpresa quando il giorno dopo l'asta ci telefonò per comunicarci che i due quadri che volevamo, uno dei quali battuto per ottocentomila lire, non erano poi stati assegnati perché chi se li era aggiudicati, dovendo pagare in contanti e non avendone a sufficienza, aveva optato per altri oggetti e che, se lo avessimo voluto, avremmo potuto comprarli al prezzo base di trecento cinquanta mila lire. Era una bella somma, però in fondo c'era solo da aggiungere qualche soldo al piccolo legato in denaro lasciato a Giulio insieme ai libri e fu così che le bambine sono arrivate nella mia camera da letto e da allora mi fanno compagnia...

venerdì 8 maggio 2009

Come fu che ad un certo punto....


Lo vedete questo bel bambino biondo? E' Mariolino, il primo figlio del mio fratello maggiore, con il quale siamo stati per tutta la vita come culo e camicia, se mi perdonate la volgarità dell'espressione.
Avevo sempre pensato di non volere figli e, quindi, di non avere alcuna intenzione di sposarmi. Il matrimonio mi appariva allora quasi come una condanna a morte e a mia madre, che tentava invano di farmi ragionare, dicevo che non mi sarei di certo sposata, quanto meno non prima dei quarant'anni perché non volevo legami, volevo decidere liberamente della mia vita. Eh, sì, immaginavo la mia vita fatta di lavoro, viaggi, amori senza impegno, insomma in poche parole intendevo vivere a modo mio, almeno gli anni della giovinezza.
Poi un bel giorno si annunciò, del tutto inaspettato, l'arrivo di un bebé. Mio padre era seccatissimo, nella sua famiglia i bebè erano nati sempre solo DOPO nove mesi dal matrimonio, vi lascio immaginare quindi le storie e gli orribili suggerimenti per evitare lo scandalo. Mia madre, invece, donna di straordinaria intelligenza e modernità, disse che lei se ne fregava delle chiacchiere degli altri, il nipote c'era e lei se lo teneva. E si mise immediatamente all'opera per organizzare il matrimonio e accogliere l'erede. Fu una gravidanza senza problemi, alla fine Mariolino pareva sempre voler nascere, ma non si decideva mai, tanto che ad un certo punto i medici per evitare guai, decisero per il cesareo, con nostro grande sollievo. Io all'epoca lavoravo a Roma, dove vivevo da sola e, quindi, non appena Mariolino nacque immediatamente andai a Ripalta a vederlo. Era un bambino minuto con dita e unghie lunghissime, nato con la camicia, rivestito cioè di una sorta di pelle che poi nei giorni successivi alla nascita è caduta. I quattro peli che aveva in testa erano biondissimi e i suoi occhi diventavano di giorno in giorno di un azzurro più intenso. Andavo in giro per Roma con la testa infilata nelle vetrine dei giocattoli, nessuno mi pareva troppo bello o troppo costoso per lui, che cresceva bello come il sole e riempiva di orgoglio genitori e nonni. Intelligentissimo, apprezzava tutti gli stimoli che gli offrivamo e, soprattutto, adorava il nonno che seguiva come un cagnolino. Per parte mia, il fine settimana correvo a trovarlo, portandogli sempre qualcosa, e quando il pomeriggio mi stendevo sul letto, lui si veniva ad accoccolare vicino e dormivamo abbracciati.
Il suo profumo di borotalco, il tepore di quel corpo, la vocina squillante, le risate che scoppiavano improvvise e irresistibili, mi hanno pian piano conquistato ed mi hanno fatto capire che il rifiuto di avere figli era solo un capriccio della bambina la cui prima risposta era un sonoro NO. La natura faceva sentire la sua voce e mi spingeva a riconsiderare tutte le mie scelte di vita. Nel frattempo, chiusa l'esperienza romana, tornata a Napoli ritrovai tanti vecchi amici e tra un teatro, una conferenza, un cinema, una cena improvvisata, incontrai il mio principe ed in quattro e quattr'otto ci siamo sposati ed abbiamo immediatamente avviato la nostra famiglia....

domenica 12 aprile 2009

Matilde Serao racconta Palazzo Donn'Anna



da "Leggende Napoletane" di Matilde Serao 1856-1927

Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l'onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia, entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie. mette l'arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe. Di notte, il palazzo diventa nero, intensamente nero; sì serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posilipo, dalle ville perdute nei boschetti, escono canti malinconici d'amore e le monotone note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue volte fragoreggia l'onda marina. Ogni tanto, par di vedere un lumicino passare lentamente nelle sue sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle finestre; ma non fanno paura. Forse sono ladri volgari che hanno trovato là un buon covo, ma la nostra splendida povertà non teme di loro; forse sono mendicanti che trovarono un tetto, ma noi ricchi di cuore e di cervello, ci abbassiamo dalla nostra altezza per compatirlo. E forse sono fantasmi e noi sorridiamo e desideriamo che ciò sia; noi li amiamo i fantasmi, noi viviamo con essi, noi sogniamo per essi noi moriremo per essi, col desiderio di vagolare anche noi sul mare, per le colline, sulle roccie, nelle chiese tetre ed umide, nei cimiteri fioriti, nelle fresche sale, dove il medioevo ha vissuto.
Fu una sera, e splendevano di luce vivida quelle finestre; attorno attorno il palazzo, sul mare si cullavano barchette di piacere, adorne di velluti che si bagnavano nell'acqua, vagamente illuminate da lampioncini colorati, coronate di fiori alla poppa; i barcaiuoli si pavoneggiavano nelle ricche livree. Tutta la nobiltà napoletana, tutta la nobiltà spagnuola, accorreva ad una delle magnifiche feste che l'altiera Donna Anna Carafa, moglie del duce di Medina Coeli, dava nel suo palazzo di Posilipo. Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi dalla collana d'oro, dalle bacchette d'ebano: giungevano continuamente le bellissime signore, dagli strascichi di broccato, dai grandi collari di merletto, donde sorgeva come pistillo di fiore la testa graziosa, dai monili di perle, dai brillanti che cadevano sui busti affiliati e seducenti; giungevano accompagnate dai mariti, dai fratelli e qualcheduna, più ardita, solamente dall'amante. Nella grande sala, sulla soglia, nel suo ricchissimo abito rosso, tessuto a lama d'argento, con un lieve sorriso sulla bocca, il cui grosso labbro inferiore s'avanzava quasi in atto di spregio, inchinando appena il fiero capo alle donne, dando la mano da baciare ai cavalieri Grandi di Spagna di prima classe come lei, stava Donna Anna di Medina Coeli. L'occhio grigio, dal lampo d'acciaio, simile a quello dell'aquila, rivelava l'interna soddisfazione di quell'anima fatta d'orgoglio: ella godeva, godeva senza fine nel veder venire a lei tutti gli omaggi, tutti gli ossequi, tutte le adulazioni. Era lei la più nobile, la più potente, la più ricca, la più rispettata, la più temuta, lei duchessa, lei signora, lei regina di forza e di grazia. Oh poteva salire gloriosa i due scalini, che facevano del suo seggiolone quasi un trono; poteva levare la testa al caldo alito dell'ambizione appagata che le soffiava in volto. Le dame sedevano intorno a lei, facendole corona, minori tutte di lei: ella era sola, maggiore, unica.
In fondo al grande salone era rizzato un teatrino, destinato per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d'invitati, doveva dapprima assistere alla rappresentazione di una commedia ed a quella di una danza moresca; poi nelle sale si sarebbero intrecciate le danze sino all'alba. Ma la grande curiosità della rappresentazione era che gli attori per una moda venuta allora di Francia, appartenessero alla nobiltà. Donn'Anna Carafa di Medina disprezzava i facili costumi francesi che corrompevano la rigida corte spagnuola, ma scrutatrice dei cuori e apprezzatrice del favore popolare com'era, s'accorgeva che quelle molli usanze piacevano ed erano adottate con trasporto. Solo per questo ella aveva consentito che Donna Mercede de las Torres, sua nipote di Spagna, sostenesse una parte nella rappresentazione. Donna Mercede, giovane, bruna, dai grandi occhi lionati. dai neri capelli, le cui treccie le formavano un elmo sul capo, era una spagnuola vera. Ella rappresentava nella commedia la parte di schiava innamorata del suo padrone, una schiava che lo segue dappertutto, e lo serve fedelmente sino a fargli da mezzana d'amore, sino a morire per lui d'un colpo di pugnale, destinato al cavaliere da un padre crudele. Ella recitava con un trasporto, con un tal impeto, che tutta la sala si commuoveva, allo sventurato e non corrisposto amore della schiava Mirza: tutti si commuovevano salvo Gaetano di Casapesenna che recitava la parte del cavaliere, ed egli, freddo, indifferente, inconscio, non faceva che rimaner fedele al carattere che rappresentava. Solo, alla fine della commedia, quando la sventurata Mirza ferita a morte, s'accommiata con parole d'affetto da colui che fu la sua vita e la sua morte, allora, egli, cui appare finalmente la verità qual luce diffusa meridiana, preso dall'amore, s'abbandona in ginocchio dinanzi al corpo della poveretta morente e copre di baci quel volto pallido d'agonia. Invero, egli fu così focoso ditale slancio, così patetica ed improntata di dolore la sua voce, così disordinato ogni suo gesto, che veramente parve superiore ad ogni vero attore, e parve che la verità animasse il suo spirito, sino al punto che la sala intiera scoppiò in applausi.
Sola, sul suo trono, tra le sue gemme, sotto la sua corona ducale, Donn'Anna impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra. Non era lei la più amata.
Le due donne s'incontravano nelle sale del palazzo Medina; si guardavano, Donna Mercede fremente di gelosia, l'occhio nero covante fuoco, smorta, rodendo un freno che la sua libera anima abborriva; Donna Anna, pallida di odio, muta nella sua collera; si guardavano, impassibile e fredda Donn'Anna; agitata e febbrile Donna Mercede. Scambiavano rade ed altere parole. Ma se la gelosia scoppiava irresistibile, l'ingiuria correva sul loro labbro:
Le donne di Spagna sono esse le prime, ad abbandonarsi all'amante - diceva Donn'Anna, con la sua voce dura e grave.
Le donne di Napoli si gloriano del numero degli amanti - rispondeva vivamente Donna Mercede.
Voi siete l'amante di Gaetano Casapesenna, Donna Mercede.
Voi lo foste, Donn'Anna.
Voi obbliaste ogni ritegno, ogni pudore, dandoci il vostro amore a spettacolo, Donna Mercede.
Voi tradiste il duca di Medina-Coeli, mio nobile zio, Donn'Anna Carafa.
Voi amate ancora Gaetano Casapesenna.
Voi anche lo amate ed egli non vi ama, Donn'Anna.
Vinceva la bollente spagnuola e Donn'Anna si consumava dalla rabbia. Ma egualmente l'odio glaciale della duchessa, contro cui si infrangeva ogni slancio di Donna Mercede, tormentava la spagnuola. Esse avevano nel cuore un orribile segreto; esse portavano nelle viscere il feroce serpente della gelosia, esse morivano ogni giorno di amore e di odio. Donn' Anna celava il suo spasimo, ma Donna Mercede lo rivelava nelle convulsioni del suo spirito e del suo corpo. La duchessa agonizzava, sorridendo; Donna Mercede agonizzava, piangendo e strappandosi i neri capelli. Fino a che ella scomparve d'un tratto dal palazzo Medina-Coeli e fu detto che presa da improvvisa vocazione religiosa, avesse desiderato la pace del convento e fu narrato del misticismo ond'era stata presa quell'anima, e delle lunghe eterne giornate, passate in ginocchio dinanzi al Sacramento, e del fervore della preghiera e delle lagrime ardenti: ma non fu detto né il convento, né il paese, né il regno, dove era il convento. Invano Gaetano di Casapesenna cercò Donna Mercede in Italia, in Francia, in Ispagna ed in Ungheria, invano si votò alla Madonna di Loreto, a San Giacomo di Compostella, invano pianse, pregò, supplicò. Mai più rivide la sua bella amante. Egli morì giovane, in battaglia, quale a cavaliere sventurato si conviene.
Altre feste seguirono nel palazzo Medina, altri omaggi salutarono la ricca e potente duchessa Donn'Anna; ma ella sedeva sul suo trono, con l'anima amareggiata di fiele, col cuore arido e solitario.
Quei fantasmi sono quelli degli amanti? O divini, divini fantasmi! Perché non possiamo anche noi, come voi, spasimare d'amore, anche dopo la morte?

mercoledì 4 marzo 2009

Una pesca quasi... miracolosa


Ragazzini, vivevamo tutto il giorno in costume da bagno, sulla spiaggia di Positano.
Era una spiaggia lunga, un po' meno di oggi, in parte di ciottoli, che sul bagnasciuga erano più simili a sassolini, in parte di una sabbia scura, quasi nera.
Passavamo buona parte della giornata nell'acqua, sdraiati sul materassino di tela, dal quale pescavamo piccoli pesciolini, che davamo ad un napoletano anzianotto, trapiantato a Milano, che d'estate tornava a casa per le vacanze e che in cambio ci dava i soldi per un gelato. Lo avevamo conosciuto perché sulla spiaggia ci pregava di raccogliere per lui i gusci di cozze piccole che trovavamo, con i quali credo facesse dei quadri che però non ho mai visto.
L'ultima estate che siamo andati in vacanza lì, i nostri vicini di ombrellone erano una coppia di sposini austriaci in viaggio di nozze, che di solito prendevano i loro materassini e si allontanavano dalla spiaggia grande per raggiungere una delle tante spiaggette vicine. Il marito, abbastanza più grande di lei, parlava italiano, l'italiano dei tedeschi, con lei invece scambiavamo grandi sorrisi e talvolta qualche parola in inglese. Un pomeriggio vedemmo che lui metteva la maschera, si tuffava, nuotava per un po', poi tornava a riva e scuoteva la testa, mentre lei scoppiava in un pianto disperato. Turbati, non sapevamo cosa fosse successo e se potessimo intrometterci, poi però, pensammo che, da quel che avevamo visto, dovevano aver perso qualcosa, così era: Traude durante una di quelle passeggiate in materassino aveva perso un braccialetto d'oro, che era stato il primo regalo del marito.
Potevano due provetti pescatori come noi restare indifferenti a cotanto dramma? Certo che no, quindi, in quattro e quattr'otto, ci rimettemo i costumi e ci tuffammo, pregandoli di aspettare cinque minuti, che avremmo cercato di trovarlo facendo la stessa strada che al mattino avevamo visto fare a loro. Il percorso era disseminato di scogli e di lunghe alghe verdi, tra le quali si nascondevano pesci, pescetti e ricci di mare. Tra la spiaggia e quella foresta di alghe si stendeva una striscia di sabbia bianca e fu lì che all'improvviso vidi luccicare qualcosa di giallo. Era profondo quattro o cinque metri, ma per noi, abituati a pescare i ricci e i polipi sommozzando, era un gioco da ragazzi... un tuffo e... voila, ecco il braccialetto nelle nostre mani. Invertita la marcia, siamo tornati orgogliosi e trionfanti sulla spiaggia dove siamo stati abbracciati e sbaciucchiati da moglie e marito, ai quali non pareva vero che avessimo trovato quel tesoro. Nonostante le loro insistenze, non abbiamo accettato nessuna ricompensa, perché lo avevamo fatto solo per simpatia. Di lì è poi nata un'amicizia durata per molti anni, finché come spesso succede, piano piano ci siamo persi di vista, quando loro hanno scoperto Tenerife. Penso con tenerezza ad entrambi, alla loro famiglia che poi negli anni ho conosciuto, a quanto è stato stupido lasciar cadere quella amicizia....

sabato 28 febbraio 2009

Carnevale - Le feste (2)


I preparativi per la festa erano molto laboriosi, sembrava quasi che ogni festa dovesse essere più bella della precedente. Ricordo che l’ultima la facemmo quando avevo una decina d’anni e che, in quell’occasione, davvero mia mamma superò se stessa. Aveva comperato un centinaio di palloncini, che aveva fatto gonfiare con l’elio e, dopo aver legato un paio di metri di nastro colorato a ciascuno, lanciare al soffitto.
Allora assumere l’intrattenitore era considerato un inutile spreco, i bambini erano accompagnati dalle loro mamme e in genere si invitavano a casa propria solo persone conosciute. Ogni bambino portava un regalino: libri, piccoli giochi, caramelle o biscotti. Se erano dolciumi, se ne aprivano un paio di scatole da offrire in giro e il resto si conservava in vista di futuri ricicli. Dopo il buffet, fatto di tramezzini che erano una festa di colori e panini, pizze e pizzette fritte, spremute di arancio e qualche coca cola, cominciavano i giochi nei quali occorreva cimentarsi, c’era un gran cartellone con il disegno di un asino e i bambini – bendati e aiutati da un adulto perché non si infilzassero la puntina della coda nel dito - dovevano cercare di attaccare al posto giusto la coda dell’asino. Vinceva chi arrivava più vicino, poi si facevano tanti giochi tipo sacchi vuoti e sacchi pieni, il pacco, la sedia…. Quando era quasi ora di andar via, portavano le pignate, che si mettevano su un tappeto. Ai bambini, nuovamente bendati, si dava una mazza di scopa interamente rivestita di carta crespa, con una punta come quella dell’asso di bastoni, con la quale dovevano cercare di rompere una delle due pignate, una per i maschi, una per le femmine.
Romperle non era facile, all’interno di ciascun pacco rivestito di carta per dargli la forma di un ananas o di un ortaggio, c’era una grossa pentola di coccio, piena di caramelle e cioccolatini, nascosti tra i coriandoli e un premio: un mazzo di carte per un gioco tipo doppia coppia o memory, oppure una bambolina o un modellino di automobile…
Ad ogni colpo si tastava l’integrità della pignata, il primo che la spaccava era il vincitore del premio e, dopo aver eliminato eventuali schegge, agli altri bambini venivano consegnati coriandoli, caramelle e cioccolatini.
Poi tutti mettevano il cappotto, recuperavano un palloncino colorato e andavano via.
Le feste per gli adulti, invece, di solito prevedevano solo una maschera “en tete”. La cena di solito era a picnic e avveniva tra un giro e l’altro di un torneo di canasta. Se non c’era il torneo, i grandi facevano vari giochi, la corsa con la patata nel cucchiaio, il passaggio sotto un bastone teso sempre più in basso, il ballo con lo spaghetto in bocca o la mela da mangiare in due… E, alla fine, anche i grandi dovevano rompere la pignata. Le signore si mettevano in fila e una alla volta davano una botta sulla pentola, poi ci provavano i loro mariti, a volte la pignata era così ben impacchettata che romperla era difficilissimo e si doveva quindi ricominciare più volte il giro.
Noi bambini naturalmente eravamo stati spediti a letto per tempo, ma io ogni tanto riuscivo a sgattaiolare fuori dalla mia stanza e ad andare a spiare, ma immancabilmente venivo beccata e rispedita a letto.

Carnevale - Maschere (1)



I Parlato erano sempre pronti a festeggiare in compagnia, Natale, Capodanno, Pasqua erano feste rigorosamente assegnate alle sorelle di mio padre, in una interminabile gara di bravura culinaria. Ugualmente festeggiati con gran pompa compleanni ed onomastici delle sorelle, meno quelli dei fratelli, le cui mogli non avevano tanta voglia di darsi da fare.
Il Carnevale, invece, nella loro infanzia costellata di lutti familiari e vissuta con una mamma di salute assai cagionevole, era una festa quasi ignorata, quindi se ne era immediatamente impossessata mia madre che invece amava stare in compagnia (del periodo del collegio non ricordava assolutamente nulla, tanto doveva essere stato infelice). Quindi a carnevale si festeggiava doppiamente, con i parenti e gli amici e con noi bambini. Lei cucinava e cuciva benissimo, era una persona che ignorava la pigrizia, piena di fantasia e di buon gusto com’era, si sbizzarriva a preparare succulenti manicaretti e a cucire vestiti e vestini nei quali ci saremmo pavoneggiati a tutte le feste di carnevale alle quali avremmo partecipato.
Nella nostra casa di via Poerio c’era un salotto ai cui lati c’erano lo studio di mio padre e la camera da pranzo, tutti comunicanti tra loro e che costituivano quindi uno spazio adattissimo alle feste. Dopo aver deciso come ci saremmo vestiti (ed era una delle poche occasioni in cui avevamo voce in capitolo) mamma si metteva subito al lavoro.
Un anno io avevo letto la Tamburrina di Napoleone, un libro per bambini di cui non ricordo quasi nulla, se non la copertina. Mia mamma mi cucì un pantalone di panno azzurro, con due bande dorate ai lati, un corpetto bianco con le spalline azzurre e le nappe dorate che ne discendevano e una sfilza di alamari dorati cuciti su strisce di panno rosso, insomma più o meno come la divisa della foto, salvo che per i colori. La cosa più difficile fu trovare il Kepì, che nessuno dei negozi di articoli carnevaleschi aveva, così che mio padre dovette ingegnarsi a farmene uno, che però era un po' sbilenco. Fortunatamente, però, una mia zia ne vide uno in un negozio di quelli che vendono la carta a peso d’oro e me lo regalò. Siccome ero magrissima, quel costume mi stava benissimo e l'ho potuto indossare a moltissime feste, per almeno un paio d’anni, poi mi è uscito il pettacchione che ho e così dovetti conservarlo. Ce l'ho ancora, nascosto da qualche parte. Negli anni precedenti e successivi mi sono vestita da cowboy, da ballerina, da pacchiana, da cappuccetto rosso, da dracula… Mio fratello più grande, invece, si vestì per anni da Robinson Crosue, anche a lui mamma aveva fatto un costume con pelli di capra e un vecchio pantalone di fustagno, sul quale indossava una camicia ridotta a brandelli… Massimo, il mio fratello piccolo, pestifero e dotato di una volontà ferrea, mal sopportava di indossare due anni di seguito lo stesso costume, né tanto meno avrebbe mai indossato i nostri, quindi si è vestito da diavolo, da casetta (anche questo costume c’è ancora, come quello di Robinson) , da strillone, da cuoco, da arlecchino, da Pierrot… I miei bambini, invece, si sono vestiti per un paio di anni da Pinocchio (sempre grazie alla nonna, che aveva fatto i vestiti di panno lenci rosso e verde) e poi da pagliaccio, da spaziali, da coniglio, da superman.
Ormai, però, per loro il carnevale si festeggia unicamente con la lasagna, che in verità mi riesce piuttosto bene.

domenica 25 gennaio 2009

Un pomeriggio bellissimo


Ieri era domenica e purtroppo pioveva, ogni tanto il cielo si apriva un po' per un'illusione di bel tempo, poi di nuovo acqua a catinelle. Non faceva tanto freddo, ma c'era molto vento e le raffiche di pioggia non invitavano ad uscire, però le bambine di mio fratello, che è ancora a Milano con la moglie, dopo avermi aiutato a cucinare e a mettere la tavola, avevano giocato a lungo con il computer ed il nintendo e ad un certo punto mi pareva che fossero un po' stufe. Così siamo scese nello splendido giardino all'interno del mio palazzo, bellissimo, ma talmente abbandonato da far quasi paura e mentre sul terrazzo panoramico ci godevamo la veduta, ci è venuta voglia di un gelato. Così, detto fatto, abìbiamo avvertito i miei che andavamo a fare una passeggiata e ce la siamo squagliata in fretta, io e le tre bambine. Siamo andati da un gelataio che offre una grande varietà di gusti e la scelta è stata molto laboriosa, cosi' come la demolizione dei gelatoni che avevamo ordinato. Poi volevo far vedere come la forma conica del golfo di Napoli evidenziasse la natura vulcanica del luogo e abbiamo così ammirato la zona di Bagnoli, Monte di Procida e le isole di Ischia e Procida che, a causa del maltempo, si vedevano con grande chiarezza. Finito il giro panoramico, spiegata la leggenda della sirena Posillipo e la storia del palazzo di Donn'Anna, siamo andati a guardare il mare da vicino, le onde spazzavano via Caracciolo (il lungomare) ed era bellissimo vederle frangersi sulla scogliera stando ben al calduccio in macchina... Potete immaginare quante diverse gradazioni di grigio possano esserci in un cielo napoletano in un tramonto nuvoloso? E riuscite a vedere come cambino i colori del Vesuvio quando è illuminato solo a tratti dai raggi del sole che hanno bucato le nuvole in qualche punto? I suoi colori vanno dal viola cupo al rosso, al verde brillante e se - mentre guardate le nuvole e gli intrecci di luce che arricchiscono di colori quella che in genere sembra una montagna brulla - vi accorgete che nei dintorni del porto sorge in tutto il suo splendore un bellissimo arcobaleno quasi completo, riuscite a capire perché chi vive qui- con tutti i problemi e le difficoltà che ci sono nel quotidiano - non sa poi staccarsi da queste luci e da questi colori? Le bambine in macchina non stavano nella pelle e non sapevano più dove e cosa guardare. Il vento soffiava, le nuvole si accavallavano e si rincorrevano nel golfo, il mare urlando la sua furia schiaffeggiava la scogliera con onde alte e rumorose... C'era stata la partita, che il Napoli aveva malamente perso, e c'era ancora un momento di pausa, prima che la folla accalcatasi allo stadio si rovesciasse sulle strade, un'orda incontrollata e delusa... Un pomeriggio bellissimo!

domenica 18 gennaio 2009


Quando si partiva per Positano, l'unica cosa di cui mio padre si preoccupava era il sacchetto con la lampara ed un buon numero di totanari, lunghe lenze che terminavano con una bacchetta di piombo alla quale si legavano accuratamente filetti di alice, che servivano da esca per i totani, animali molto simili ai calamari, che all'epoca abbondavano vicino alla costa.
Per poter andare a pesca, bisognava che ci fosse la luna nuova e che il tempo fosse sufficientemente stabile, per noleggiare una barca a remi ed avventurarsi in mare aperto di notte, con tre bambini e una moglie che non sapeva nuotare, ma che rifiutava di restare ad aspettare a casa.
Quando finalmente la data era decisa, consultati tutti i marinai di fiducia per previsioni del tempo personalizzate, si preparavano le lenze. Erano lenze di un centinaio di metri di nailon doppio, che terminavano con una polpara, un pezzo di piombo, con un amo a forma di cerchio con delle spine di metallo, al quale si legava saldamente un'alice appena pescata. Mio padre si preoccupava anche di acquistare l'acetilene per la lampara, mentre mia madre preparava una merenda a base di rosette di pane imbottite di mortadella, un po' di uva a cornicelle, qualche bottiglietta di gassosa (la coca cola non era ancora entrata saldamente nella nostra cultura) e noi cinque, con un caro amico anche lui appassionato di questo tipo di pesca, ci avviavamo. Eravamo naturalmente vestiti con pantalonacci vecchi e, benché fosse piena estate, eravamo anche obbligati ad indossare le pizzicosissime marinare - pullover di lana fitta tipici della Positano di quegli anni, che erano fatti con lana a buon mercato e pungevano se le indossavi senza avere una camicia sulla pelle.
Si partiva all’imbrunire e ci allontanavamo lentamente dalla spiaggia finché le luci di Positano diventavano piccole piccole. La notte diventava sempre più scura e tutti restavamo in un silenzio quasi religioso, rotto solo dallo sciabordio dei remi.
Giunti al posto ritenuto adatto alla bisogna, si metteva dell’acqua di mare nella lampara, legata a poppa, insieme alle pietre di acetilene e si liberava così un gas con un odore molto penetrante, al quale si dava fuoco. L’assenza della luna faceva concentrare sotto la sibilante luce della lampara decine di aguglie e pesciolini vari e a volte anche i totani, che vedevamo nuotare quasi a pelo dell’acqua, con il loro incantevole color rosso vivo.
Sempre in silenzio, calavamo le nostre lenze, alzando ed abbassando il braccio per cercare di indurre i totani ad abboccare. Quando si sentiva una toccata bisognava tirare su piano piano, senza strappi, con un ritmo costante. Il totano, infatti, nuotando all'indietro, si aggrappava sempre più all'amo mentre, se uno avesse dato uno strappo troppo forte, si sarebbe staccato e sarebbe fuggito. Appena arrivato in barca il totano, che non poteva più sfruttare la forza propulsiva dell'acqua per nuotare, si staccava da solo dall’amo e lanciava un forte spruzzo di acqua, misto ad inchiostro, al quale tutti cercavano di sottrarsi allontanandosi il più possibile da chi lo aveva preso, per riavvicinarsi immediatamente dopo, per valutare la grandezza della preda.
Nelle pesche più fortunate, in un paio d’ore prendevamo una decina di totani e al ritorno non finivamo di commentare la pesca, le catture di questo e di quello, il totano scarpone (molto grosso) che ci era scappato per un pelo… Appena arrivati a casa mamma puliva e cucinava i totani con la salsa di pomodoro, mentre noi, sporchi, infreddoliti e affamati, aspettavamo che fosse pronto a tavola.
Mangiavamo con gli occhi che si chiudevano dal sonno, ma non avremmo rinunciato per nulla al mondo a quella pasta, che ci sembrava buonissima, anche se eravamo così stanchi che a stento riuscivamo a tenere gli occhi aperti.
Capitava, però, anche di tornare a mani vuote, perché non si era trovato il punto giusto, o semplicemente perché eravamo stati poco fortunati, ma anche se un po’ ci restavamo male, un gelatone da Chez Black, il bar che stava sullo stradone e del quale eravamo affezionati clienti, ci consolava in fretta della delusione. E anche senza totani da mettere nel sugo, mamma la pasta la preparava lo stesso.

sabato 17 gennaio 2009

Testa tonda e testa quadra



E mentre Testa Tonda contava, noi rispondevamo al suo posto. Allora non sapevamo che
quelle storie, che ci affascinavano, avevano uno scopo didattico e servivano a farci ripassare le tabelline, la grammatica, la storia e la geografia e a stimolarci al calcolo veloce. Testa Tonda sarebbe stato punito dallo Spillone di Fata Nocina? e Testa Quadra avrebbe ricevuto una di quelle piccolissime caramelle magiche, che potevi succhiare per ore e sentire di volta in volta il sapore al quale pensavi? La storia di Fata Nocina si è dipanata per anni, mentre appollaiati su quella poltrona ci crogiolavamo nel suo abbraccio tenero, fino a quando il povero Testa Tonda, che per qualche tempo aveva il sedere così malridotto da non potersi quasi sedere, si rassegnò a studiare e Fata Nocina dovette andare a cercarsi altri bambini da educare allo studio.
Babbo raccontava le storie in modo meraviglioso, dando ai suoi personaggi voci diverse, Pinocchio, Mangiafuoco, la Fata Turchina, il grillo Parlante, Tarzan, Cita e gli animali della foresta, ognuno aveva un suo modo di parlare e in occasione di feste familiari si formava intorno a lui un crocchio di bambini che ascoltavano incantati i racconti che la sua fantasia intesseva per noi. E che importa se ogni tanto preso dalla foga del racconto, ci faceva sobbalzare con i suoi urli, oppure se invece, appesantito dal pasto abbondante, chiudeva un attimo gli occhi e si appisolava... Noi aspettavamo fiduciosi che continuasse e se non continuava lo scuotevamo energicamente e lui ricominciava a raccontare da dove si era interrotto.
I guai cominciavano quando gli chiedevamo di raccontare di nuovo una storia che già ci aveva raccontato, perché non si ricordava più cosa fosse successo quella volta che Cita aveva litigato con il leone e Tarzan era dovuto intervenire a sedare la lite, oppure di quella volta che Testa Tonda aveva copiato il compito da Testa Quadra e la maestra non se n'era accorta.... Noi pretendevamo che la raccontasse nello stesso modo e usando le stesse parole e quando sbagliava era un coro di Nooo non era così... Babbo era una persona dolce e accomodante e ridacchiando diceva "allora raccontatemi voi com'era andata".... Ma neanche così andava bene, a noi piaceva che raccontasse lui, quindi il poverino, dopo che gli avevamo ricordato cosa fosse successo, era costretto a raccontare di nuovo... cercando di non sbagliare neppure una parola.
E forse, oltre ai colori ed al movimento degli occhi, io gli somiglio nella capacità di immedesimarmi nelle fantasie dei bambini, nella capacità e nella voglia di sognare anche quando tutto sembra andar male.

lunedì 12 gennaio 2009

Mario e Maria - due


A quel punto la famiglia, alla quale andava benissimo baloccarsi con quella ragazzina, si chiuse a riccio, ostacolando in ogni modo quell’amore, tanto da non partecipare neppure al matrimonio, che dopo poco seguì.
Maria, che si sposava circondata solo dalla sua mamma, dal patrigno e da uno zio e dalla gente che viveva nel paesino - del resto c’era la guerra e anche gli spostamenti non erano facili – mentre cognati e cognate erano asserragliati nel castello, da dove avevano rifiutato di scendere per partecipare a quel matrimonio, con il cuore gonfio del dolore di essere respinta, guardava la statua di quella madonna miracolosa e prometteva amore, fedeltà, tenerezza ad un uomo timido, tanto innamorato da mettersi contro la sua famiglia, ma non abbastanza coraggioso da difenderla dalle mille angherie di fratelli e cognate, che non perdevano occasione per tiranneggiarla, svillaneggiarla, offenderla.
Poi la guerra finì, si tornò in città, nella casa avita, affollatissima, in pieno centro, dove alla sua famiglia di quattro persone venne assegnata una stanzetta minuscola; col passare dei mesi, però, fu evidente che la casa era diventata troppo piccola per starci tutti e che bisognava che qualcuno andasse altrove.
A lei non parve vero di poter lasciare quel buco in cui l'avevano relegata e una casa in cui non aveva voce in capitolo, per avere invece finalmente un posto tutto suo, in cui non dover dar conto a nessuno. Certo in cinque anni il suo bel carattere, la sua intelligenza e la sua sensibilità alla fine le avevano pian piano riconquistato l’amicizia di quelle due ragazze con la veletta, che si fidavano e si confidavano, certe che nulla sarebbe trapelato dei fatti loro e Mario e Maria finalmente si trasferirono in via Poerio, che il popolino chiamava Vico Freddo, a un passo dalla villa comunale e dal mare, che Maria aveva scoperto solo dopo il matrimonio. Ben presto in quella casa arrivò a far compagnia ai due bambini biondi e con gli occhi azzurri un demonietto con gli occhi neri, bruno bruno, piccolo di statura ma immenso per l'intelligenza straordinaria e che aveva un altrettanto straordinario pessimo carattere…
La vita di Mario e Maria non è mai stata facile, difficoltà economiche a non finire, Mario non aveva mai lavorato e non poteva né voleva cominciare a farlo a cinquant’anni, le proprietà non rendevano quasi nulla e ogni tanto bisognava vendere qualcosa... fu così che Maria si rimboccò le maniche e prese le redini economiche della famiglia. Spirito di osservazione, tenacia, capacità di progettare e di guardare lontano, costanza nell’impegno non tardarono a dare risultati e Mario e Maria, finalmente raggiunsero una discreta tranquillità economica.
Finiti gli anni di una giovinezza tumultuosa, resa infelice dalle difficoltà della vita e anche da quelle create da una famiglia diffidente e prepotente, che vedeva in lei una persona interessata ed avida, perché il marito, mentre raccontava delle angherie subìte, quando Maria rivendicava il possesso di quel che apparteneva a lui, la esortava a lasciar perdere perché non voleva far dispiacere i suoi fratelli.
Hanno vissuto insieme più di quarant'anni e anche se con qualche sbandamento da una parte e dall’altra, pur litigando ferocemente un giorno sì e l’altro pure, si sono amati e rispettati fino alla fine. Mario, approdato a Capri, dopo un inverno faticoso per le tante malattie che si erano succedute, si è tuffato e, forse per l'acqua ancora troppo fredda, ci è rimasto. Maria, impietrita dal dolore, lo ha pianto nei lunghi anni in cui è rimasta sola, mantenendo vivo in figli e nipoti il suo ricordo fino a quando, stufa di vivere senza di lui, ha rifiutato di curarsi una ferita infetta e lo ha seguito in un un mattino di settembre di qualche anno fa. Il loro amore, pur nella severità della rigida educazione ricevuta, ci ha sostenuto ed accompagnato anche quando ci siamo messi nei guai per superficialità o imprudenza, loro non erano compagni o amici, ma nemmeno giudici o carnefici. E chi li ha conosciuti, ancora oggi li ricorda con amore.

Mario e Maria - uno


Sedici anni, capelli neri, occhi verdi un pettacchione malamente rivestito da un vestitino da tre soldi. Nonostante la guerra, era sempre allegra e cantava a squarciagola "Vento, portami via con te…" In effetti il posto in cui l’avevano trascinata all’uscita dal collegio era il centro direttivo di un grande feudo, di cui il suo patrigno era amministratore. Era un piccolo borgo, che contava circa trecento anime, ai margini del castello che lo dominava. Intorno, una campagna arida, sperduta ai limiti del Tavoliere, tappa obbligata della transumanza delle pecore dagli Abruzzi. Lì si parlava un dialetto a lei incomprensibile e del resto lei, messa in collegio a Napoli in tenera età, ormai aveva ben poco in comune anche con la sua mamma, che, pur adorandola, non era in grado di capirla. Dal balcone Maria guardava le donne che, sedute in circolo nella piazza (piazza, mo’… un largo pavimentato con ciottoli di fiume) davanti al castello lavoravano la lana, facendo calze per i soldati, che mandavano a figli, fratelli, mariti sparpagliati in luoghi che non riuscivano neppure ad immaginare dove fossero.
E le giornate, interminabili, passavano tra un servizio, una canzone, un pianto… Maria era molto vivace e carina, ma quel posto sperduto non offriva nulla per appagare il suo bisogno di sapere, di parlare, di vivere. Mario, Il padrone, strappato dal suo studio di avvocato e relegato in campagna a curare gli interessi della famiglia, non era adatto al ruolo che gli avevano imposto ed era un uomo precocemente invecchiato, che a notte fonda suonava il pianoforte per ore. La musica giungeva attutita, e Maria fantasticava sugli occhi azzurri di quell’uomo così triste e sul suo sorriso così dolce. Per adornare il balcone troppo spoglio, rubava i fiori nel giardino padronale, che poi piantava nei vasi che erano sul balcone e si divertiva quando Mario, da quell’ingenuo sognatore che era, ammirava i fiori e si complimentava con lei, senza accorgersi che non era possibile che dove ieri c’era un tulipano oggi ci fosse una calle. Di sguardo in sguardo, di sorriso in sorriso, tra Mario e Maria stava cominciando a nascere una simpatia, che forse sarebbe rimasta tale se ad un certo punto l’intensificarsi dei bombardamenti su Napoli non avesse indotto l’intera famiglia di Mario a sfollare a Ripalta. Da qualche giorno al castello c’era una grande animazione, avevano ridipinto la facciata, spazzato corti e cortili, lustrato porte e maniglie, pulito e ripulito le campane di vetro delle centinaia di lumi a petrolio che lo illuminavano. Poi, quando ormai la tensione di quell’attesa era diventata insopportabile, arrivarono macchine e carrozze, piene di giovani e meno giovani, dalle quali scesero, tra gli altri, due ragazze vestite a lutto, con i volti coperti dalla veletta. Si sentivano sole e sperdute, da poco era morta la loro mamma e la sorella più grande, che era già sposata, era invece rimasta a Roma con il marito.
Maria, figliastra dell’amministratore, che parlava un italiano corretto e senza accento,venne presentata alla famiglia e quelle due ragazze in gramaglie la presero immediatamente in simpatia. Nonostante l'origine modesta, sapeva comportarsi educatamente e, soprattutto, stare al suo posto al momento opportuno.
Per Maria fu come se all’improvviso si fossero spalancate le porte del paradiso, le due ragazze avevano solo qualche anno più di lei ed erano così desiderose di affetto e di attenzioni che in breve tempo non seppero più fare a meno di quel cucciolo affettuoso, allegro e curioso che era Maria, che in quell’ambiente raffinato e colto aveva trovato nutrimento per il corpo, ma soprattutto per il suo spirito affamato.
Quella ragazza ora Mario se la trovava ogni momento tra i piedi e la tenerezza che già provava per lei piano piano divenne amore e passione e, nonostante la notevole differenza d’età tra loro, ad un certo punto trovò il coraggio di proporsi.
Segue

giovedì 8 gennaio 2009

Zio Gioacchino e.. le paure di Licia


Mio nonno era un uomo ricco, ma anche simpatico e generoso, che in breve tempo era diventato il padrone di Positano. A lui la gente si rivolgeva per aiuto e per consiglio, perché da quel gran signore che era sapeva aiutare dando quasi l’impressione che fosse l'altro a fargli un piacere.
I positanesi amavano Don Michele e la sua famiglia, lui così tozzo e scuro, simile ai pescatori che tiravano la vita con i denti, lei, giovane, bella e biondissima, follemente gelosa di quel demonio bruno... lei, debole di nervi, aveva sempre le tasche piene di confetti e caramelle per i bambini ed era sempre pronta a fare una piccola dote alla ragazza che "era scivolata" e si “doveva” sposare… lui, sempre pronto a tirare fuori dai guai quella sua moglie megalomane, che quando tutto era stato sistemato con i soldi di lui, agitava il suo enorme mazzo di chiavi dicendo "quel che mio è mio" dimenticando gli innumerevoli prestiti ricevuti e mai restituiti.
Il primo dei giovani Parlato era Gioacchino, bruttino e tarchiato era però straordinariamente intelligente, vivace, curioso, sicuro di sé… un primogenito che riempiva d’orgoglio suo padre, che viveva nell’ammirato terrore delle sue prodezze e della sua sfrontatezza. Licenza liceale a sedici anni, la sua passione era la pittura, ma allora i figli dei ricchi difficilmente potevano fare gli artisti e quindi si iscrisse ad ingegneria, dove si laureò in poco più di tre anni. A vent’anni vincitore di concorso, avrebbe dovuto essere assunto come ingegnere al comune di Napoli, ma un amico del padre, invece di congratularsi con lui, lo assalì con un “vergognati, stai rubando il pane a chi ne ha bisogno”. Fu così che Gioacchino, al quale l’idea di fare l’impiegato credo sorridesse poco, perché prepotente e ribelle com'era avrebbe mal tollerato chiunque osasse dargli ordini, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti, iniziando una fortunata carriera di pittore, che unita alle ricchezze ereditate gli ha consentito di vivere una vita interessante e libera dal bisogno materiale.
Di zio Gioacchino in famiglia e tra gli amici di storie se ne raccontano tante, da quando poco più che quattordicenne sparò con un fucile ad aria compressa al capoverde appena comprato da mio nonno, che voleva avviare una riproduzione selezionata di papere e di come cercasse di fargli credere ad una morte naturale e il nonno quasi ci cascava, a quando tormentava le sorelle più piccole confidando loro che la casa di Positano era infestata da terrificanti fantasmi a forma di lisca di pesce. Dopo un pomeriggio di racconti sussurrati a questa o a quella delle ragazze, le bambine andavano a letto terrorizzate e quando, nel cuore della notte, quei fetenti dei fratelli azionavano il marchingegno che avevano preparato per far volare la lisca di pesce nella loro stanza e le chiamavano per farle svegliare, il nonno faticava non poco a convincerle che di fantasmi nella casa di Positano non ce n’erano. Anche io a suo tempo subii da parte delle mie cugine un tentativo di farmi credere che la casa fosse infestata da fantasmi e che si agirassero sulle terrazze i due suicidi che avevano trovato lì la morte, cercando invano la pace.
Mio zio Gioacchino, o perché aveva orecchiato qualcuno di quei discorsi dal terrazzino del suo appartamento, che dava sulla terrazza grande, o perché qualcuno degli altri cugini aveva fatto la spia, sentito “il fieto del miccio” mi obbligò a raccontargli cosa mi avessero detto e poi ad andare da sola in giro per l’appartamento buio, mentre lui mi aspettava sulla porta di ingresso, pronto ad intervenire se io di fantasmi ne avessi trovati. Mi ricordo che fischiettando e tremando, ma incapace di disobbedire all’intimazione, anche perché se lo avessi fatto mi avrebbe subito ricacciato nella casa che secondo me era infestata, mi aggiravo terrorizzata per l’appartamento, ma naturalmente di fantasmi non ne ho visto neppure l’ombra.
Da allora ho imparato a non temere il buio e ad affrontare sempre con coraggio le mie paure.

lunedì 5 gennaio 2009

La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte...


Doveva essere verso la fine degli anni cinquanta, abitavamo ancora nella vecchia casa al secondo piano di via Poerio e zia Anna, che aveva anche lei abitato nel nostro palazzo, invece si era da poco trasferita nella casa nuova che, pur in un’altra strada, affacciava nel nostro viale, e ci guardavamo e ci parlavamo dai balconi. Come ogni anno, era lei che organizzava una grandiosa caccia alla Befana. Ogni volta eravamo più di venti tra cugini di primo e secondo grado, dai venti ai due anni e oltre a noi c’erano figli o nipoti di amici. Una vera orda, che una volta tolti i cappotti, fu invitata a trovare la Befana, che aveva lasciato degli indizi per aiutarci. Potevo avere una decina d’anni e alla Befana già non credevo più, ma c’erano i più piccini ai quali non bisognava rivelare il segreto. Il primo indizio lo trovammo nella capanna del presepe, era un rotolino legato con un nastrino dorato che diceva: La befana è in cucina, le dovete portare un berretto rosso. E tutti di corsa, urlando, a caccia dell’introvabile berretto rosso, che alla fine scoprimmo essere il cappellino di un bambolotto di celluloide seduto in bella vista sul divano della sala da pranzo. Finalmente qualcuno dei più grandi immaginò che potesse andar bene anche quello e raccolto il cappello, tutti di corsa in cucina, dove sotto al tavolo c’era un altro rotolino con un fiocchetto rosso nel quale la Befana ci informava di essere molto stanca e di essere andata a cercare un letto sul quale sdraiarsi. Sempre urlando e correndo ci precipitammo nelle varie camere da letto, ma la terribile vecchina non c’era, c’era invece un altro rotolino con un fiocchetto blu nel quale la Befana ci chiedeva di fare un po’ di silenzio perché non ci avrebbe portato nulla se avessimo continuato a fare tanto baccano. Cominciammo quindi a guardare sotto i cuscini e sotto i letti di ogni stanza finché qualcuno trovò un nuovo biglietto che indicava un altro nascondiglio della befana. Un po’ delusi e stanchi delle tante emozioni e dal correre e gridare ci trascinavamo ormai per la casa con sempre meno foga, finché ad un certo punto di indizio in indizio arrivammo in salotto. La stanza era completamente buia, illuminata soltanto dalla luce che veniva dalla strada e, sotto la vecchia scatola dell’arpa di mia zia lampeggiava una lampadina rossa.
C’erano tante sedie per i grandi e una quantità di cuscini, sui quali fummo invitati a sederci, era tutto un vocio ed un brusio, in attesa di un evento che non sapevamo quale fosse. Improvvisamente, un fischio e la scatola dell’arpa si spalancò e nel buio intravedemmo un'alta figura nera con un'enorme scopa di saggina in mano. I bambini piccoli cominciarono ad urlare terrorizzati ed allora si accese la luce e la vecchia Befana apparve in tutto il suo orrendo splendore. Vestita di nero, con un fazzolettone rosso in testa a coprire i capelli grigi, occhiali grandi, naso adunco, e tanti, ma tanti, bitorzoli sul viso. Grandi e piccoli rimasero senza fiato, conquistati da tanta bruttezza e da quella vocina sottile che ci invitava a star tranquilli, perché la Befana era tanto stanca.
Iniziò così la distribuzione dei regali, per lo più pupazzi di stoffa a forma di elefante, di orsacchiotto, di leone, che incontrarono gli sguardi compiaciuti dei piccoli e l’aria di sufficienza dei più grandi. Sui pacchetti non c’erano i nomi, c’era un bigliettino con un disegno, che veniva mostrato a tutti e bisognava indovinare per chi fosse il regalo. Un enorme piatto di maccheroni era senz’altro per mio fratello, un grande gelato o una mega caramella erano per me, un fumetto “lo so già” indicava mia madre… Insomma, infaticabili e piene di fantasia, le donne della famiglia si erano date da fare per mesi, progettando, disegnando, cucendo, in quelle interminabili serate in cui si incontravano lontane dai nostri occhi curiosi. A quell’epoca, i regali veri li portava papà Natale e poi non si spendevano tanti soldi per i bambini, che ricevevano soprattutto caramelle, carbone e patate… In quegli anni andavano di moda delle caramelle di zucchero con all’interno il disegno di un fiore, dello stesso colore del bordo della caramella. Erano dure come pietre, si attaccavano ai denti e non si riusciva a staccarle se non con complicate manovre, ma erano buonissime, o almeno così mi sembrava, visto che in genere a stento si riusciva ad assaggiarne un paio prima che venissero conservate per essere cacciate in occasioni di visite di altri bambini. Nessuno di noi, per quanto cercasse di capire chi si era vestito da Befana, ci riuscì e solo anni dopo, quando ormai ricordando quelle bellissime feste, parlammo di quella befana venuta fuori dalla scatola dell’arpa, scoprii chi si era prestata al gioco!

domenica 4 gennaio 2009

sapori antichi


Ogni anno, a San Giuseppe, che allora era un giorno festivo,andavamo in gita a Positano, a scegliere la casa da affittare per l’estate e noi bambini intanto ci trattenevamo sulla spiaggia, dove si svolgeva ogni anno la stessa sceneggiata: noi volevamo mettere il costume, ma mia madre temeva che l’acqua fosse troppo fredda per fare il bagno e quando alla fine si faceva convincere a farcelo indossare, ci proibiva di andare in acqua.
Inutile dirvi che – rimasti da soli sulla spiaggia - giocavamo ai margini del bagnasciuga, dove prima o poi un’onda malandrina ci avrebbe preso e, visto che ormai eravamo già zuppi, come poteva la povera mamma negarci il permesso di fare il bagno?
Continuavamo ad andare a Positano quasi ogni domenica, in attesa di trasferirci lì per la villeggiatura. La villa di famiglia era dal lato la sponda noi invece prendevamo casa a Punta Reginella, cioè sulla strada che scende dal lato della Torre di Clavel. Era una zona più popolare, abitata prevalentemente da gente del posto. Negli anni cinquanta non c’era ancora quella selva di negozi che c’è ora e sulla strada si affacciavano le case dei positanesi meno abbienti, le cui mogli, nella penombra creata dalle porte semichiuse, preparavano un pranzo che profumava tutta la strada.
La signora Celeste, che abitava in una casetta proprio di fronte alla Scalinatella, faceva una salsa di pomodoro il cui profumo mi è rimasto nelle narici e, naturalmente, ci sarebbe piaciuto molto infilarci a casa sua ad assaggiarla, ma temevamo i rimproveri dei genitori, che erano molto attenti a non lasciarci profittare della generosità di chi già faticava a mettere insieme pranzo e cena. Questa severa proibizione, però, veniva pacificamente ignorata da mio fratello Massimo, che aveva escogitato una valida scusa per non farsi sgridare. Sosteneva, infatti, che la signora Celeste aveva insistito così tanto per offrirgli la fetta di pane con la salsa, che se avesse continuato a rifiutare l’avrebbe offesa e perciò aveva DOVUTO mangiarla.
Poi, quando ci siamo fatti un po’ più grandi e siamo diventati tutti e tre degli abili piccoli pescatori, ogni tanto portavamo alla signora Celeste qualche nostra preda e toccava a lei cercare di rifiutare i nostri pesciolini per il suo gatto o il nostro polipetto.
Ma prima di andare a Positano, c’era sempre un soggiorno più o meno lungo a Ripalta, terra legata alla scoperta dei sapori antichi... la frutta rubata acerba dagli alberi, il giardino di Rocco, che aveva un cespuglio di uva spina che saccheggiavo appena arrivata, il piatto unico dal quale attingevano tutti con la sola forchetta e mangiava di più chi era più veloce, le vecchie tradizioni contadine ed il pranzo semplice dei poveri. Soggetti ad una rigida educazione, quando abitavamo al castello - la bella foto di Stephen Tobin mostra il rosone centrale della chiesa - all'una dovevamo rientrare a casa per lavarci e prepararci per andare a pranzo, anche perché a quell'ora faceva un caldo terribile e i miei temevano che potesse farci male tanto calore. Rientrati al fresco, restavamo a giocare con le tartarughe in un piccolo giardino davanti alla camera da pranzo e sentivamo le mamme chiamare urlando inascoltate Teodorico, Florindo, Leonardo, Peppì... fino a quando disperate si decidevano ad andarli ad acchiappare e a portarli in casa, da dove uscivano immediatamente dopo di corsa con una grossa fetta di pane in mano: a volte pane e zucchero, a volte pane e olio, ma più spesso pane e pomodoro. Lunghe fette larghe un dito tagliate da una pagnotta spesso quasi rafferma, che quelle povere mamme, per le quali anche un uovo era una ricchezza, quando non avevano altro spalmavano con pomodoro con qualche goccia di olio e un pizzico di sale, cosparse di un origano profumatissimo, colto da poco nel bosco lì vicino. Sulla nostra tavola, invece, di poveri bambini ricchi, gli odiati "maccheroni", il secondo, il contorno, la frutta… Non sapete quanto le invidiavamo quelle fette di pane! Oltretutto dopo pranzo noi eravamo obbligati ad andare a riposare, loro invece continuavano a scorazzare e a giocare e noi ci sentivamo esclusi da tutta quella gioia di vivere.

sabato 3 gennaio 2009

Positano - anni 50-60



Sono gli anni più belli di Positano, che era stata scoperta prima dai numerosi pittori affascinati dai suoi paesaggi e dai suoi colori, poi anche da attori, cantanti, scrittori - Steinbeck nel 1956 scriveva che il paese avrebbe potuto accogliere al massimo un paio di migliaia di turisti, senza snaturarsi. Verso la fine degli anni 50 un gruppo di esistenzialisti si stabilì in un casolare sulle rocce, dove allevavano animali e vivevano allo stato brado, scendendo giù in spiaggia all'imbrunire, a festeggiare strani riti intorno ai due leoni di pietra che fiancheggiano lo scalone. A chi chiedeva loro cosa facessero spiegavano che stavano celebrando le esequie dei due leoni che erano morti. Noi bambini, figli di benestanti borghesi, eravamo inorriditi ed insieme affascinati dal loro modo di vivere, dai quadri cupi che dipingevano, dalle loro chitarre. Padroni del posto da sempre, però mano a mano venivamo scacciati dai nuovi arrivi, che occupavano spazi che tradizionalmente ci erano appartenuti.
Intanto si era aperto il Circolo dei Forestieri ed il suo presidente, che veniva da Faicchio (ma tutti dicevano Fotticchio, fingendo di non ricordare il nome esatto) era a sua volta un artista mancato ed inscenava ogni anno una fantastica festa dell'Assunta sul molo di Positano, in cui riusciva a coinvolgere tutto il paese.
All'epoca si arrivava a Positano con il vaporetto o con il pullman o con la carrozzella da Meta. Il vaporetto non poteva attraccare al molo, perché il porticciolo non era sufficientemente profondo e c'erano dei grossi barconi che due volte al giorno andavano a raccogliere i turisti che arrivavano con il vaporetto sbarcandoli poi sul molo.
Durante il periodo di ferragosto, i barconi più vecchi venivano tirati in secco, nascosti in degli enormi capannoni e "travestiti" da navi pirate o mostri marini. Si costruiva sul molo una chiesa di paglia, nella quale si depositava il quadro della Madonna di Positano. Ad un certo punto della notte precedente la festa i barconi venivano calati a mare e nascosti dentro qualche insenatura, in attesa che si facesse l'ora dello sbarco. Tutti radunati sulla spiaggia, aspettavamo l'arrivo dei pirati, incantati da luci, suoni, colori, il fragore della battaglia tra saraceni e crociati era fortissimo, alla fine i saraceni riuscivano ad impadronirsi del quadro, bruciavano la chiesa e fuggivano. Ma mentre fuggivano il quadro della madona mormorava Posa Posa Posa e così i saraceni pentiti tornavano a riva, restituivano il quadro e per festeggiare la pace fatta si facevano dei meravigliosi fuochi di artificio.
Raccontarlo così non rende la magia di quelle sere in cui davanti ai nostri occhi incantati il barcaiolo Vincenzino si trasformava nel prode Anselmo, o il falegname nel truce Saladino, o di quando improvvisamente dal buio sbucava un'ernorme balena con gli occhi verdi, che sputava fuoco dalla bocca rossa.
Ai bambini si dava poco spazio, pochissimi soldi, e le bancarelle sembravano offrire ogni tipo di delizia, purtroppo non sempre alla portata delle nostre tasche.