
Sedici anni, capelli neri, occhi verdi un pettacchione malamente rivestito da un vestitino da tre soldi. Nonostante la guerra, era sempre allegra e cantava a squarciagola "Vento, portami via con te…" In effetti il posto in cui l’avevano trascinata all’uscita dal collegio era il centro direttivo di un grande feudo, di cui il suo patrigno era amministratore. Era un piccolo borgo, che contava circa trecento anime, ai margini del castello che lo dominava. Intorno, una campagna arida, sperduta ai limiti del Tavoliere, tappa obbligata della transumanza delle pecore dagli Abruzzi. Lì si parlava un dialetto a lei incomprensibile e del resto lei, messa in collegio a Napoli in tenera età, ormai aveva ben poco in comune anche con la sua mamma, che, pur adorandola, non era in grado di capirla. Dal balcone Maria guardava le donne che, sedute in circolo nella piazza (piazza, mo’… un largo pavimentato con ciottoli di fiume) davanti al castello lavoravano la lana, facendo calze per i soldati, che mandavano a figli, fratelli, mariti sparpagliati in luoghi che non riuscivano neppure ad immaginare dove fossero.
E le giornate, interminabili, passavano tra un servizio, una canzone, un pianto… Maria era molto vivace e carina, ma quel posto sperduto non offriva nulla per appagare il suo bisogno di sapere, di parlare, di vivere. Mario, Il padrone, strappato dal suo studio di avvocato e relegato in campagna a curare gli interessi della famiglia, non era adatto al ruolo che gli avevano imposto ed era un uomo precocemente invecchiato, che a notte fonda suonava il pianoforte per ore. La musica giungeva attutita, e Maria fantasticava sugli occhi azzurri di quell’uomo così triste e sul suo sorriso così dolce. Per adornare il balcone troppo spoglio, rubava i fiori nel giardino padronale, che poi piantava nei vasi che erano sul balcone e si divertiva quando Mario, da quell’ingenuo sognatore che era, ammirava i fiori e si complimentava con lei, senza accorgersi che non era possibile che dove ieri c’era un tulipano oggi ci fosse una calle. Di sguardo in sguardo, di sorriso in sorriso, tra Mario e Maria stava cominciando a nascere una simpatia, che forse sarebbe rimasta tale se ad un certo punto l’intensificarsi dei bombardamenti su Napoli non avesse indotto l’intera famiglia di Mario a sfollare a Ripalta. Da qualche giorno al castello c’era una grande animazione, avevano ridipinto la facciata, spazzato corti e cortili, lustrato porte e maniglie, pulito e ripulito le campane di vetro delle centinaia di lumi a petrolio che lo illuminavano. Poi, quando ormai la tensione di quell’attesa era diventata insopportabile, arrivarono macchine e carrozze, piene di giovani e meno giovani, dalle quali scesero, tra gli altri, due ragazze vestite a lutto, con i volti coperti dalla veletta. Si sentivano sole e sperdute, da poco era morta la loro mamma e la sorella più grande, che era già sposata, era invece rimasta a Roma con il marito.
Maria, figliastra dell’amministratore, che parlava un italiano corretto e senza accento,venne presentata alla famiglia e quelle due ragazze in gramaglie la presero immediatamente in simpatia. Nonostante l'origine modesta, sapeva comportarsi educatamente e, soprattutto, stare al suo posto al momento opportuno.
Per Maria fu come se all’improvviso si fossero spalancate le porte del paradiso, le due ragazze avevano solo qualche anno più di lei ed erano così desiderose di affetto e di attenzioni che in breve tempo non seppero più fare a meno di quel cucciolo affettuoso, allegro e curioso che era Maria, che in quell’ambiente raffinato e colto aveva trovato nutrimento per il corpo, ma soprattutto per il suo spirito affamato.
Quella ragazza ora Mario se la trovava ogni momento tra i piedi e la tenerezza che già provava per lei piano piano divenne amore e passione e, nonostante la notevole differenza d’età tra loro, ad un certo punto trovò il coraggio di proporsi.
Segue
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