
Ogni anno, a San Giuseppe, che allora era un giorno festivo,andavamo in gita a Positano, a scegliere la casa da affittare per l’estate e noi bambini intanto ci trattenevamo sulla spiaggia, dove si svolgeva ogni anno la stessa sceneggiata: noi volevamo mettere il costume, ma mia madre temeva che l’acqua fosse troppo fredda per fare il bagno e quando alla fine si faceva convincere a farcelo indossare, ci proibiva di andare in acqua.
Inutile dirvi che – rimasti da soli sulla spiaggia - giocavamo ai margini del bagnasciuga, dove prima o poi un’onda malandrina ci avrebbe preso e, visto che ormai eravamo già zuppi, come poteva la povera mamma negarci il permesso di fare il bagno?
Continuavamo ad andare a Positano quasi ogni domenica, in attesa di trasferirci lì per la villeggiatura. La villa di famiglia era dal lato la sponda noi invece prendevamo casa a Punta Reginella, cioè sulla strada che scende dal lato della Torre di Clavel. Era una zona più popolare, abitata prevalentemente da gente del posto. Negli anni cinquanta non c’era ancora quella selva di negozi che c’è ora e sulla strada si affacciavano le case dei positanesi meno abbienti, le cui mogli, nella penombra creata dalle porte semichiuse, preparavano un pranzo che profumava tutta la strada.
La signora Celeste, che abitava in una casetta proprio di fronte alla Scalinatella, faceva una salsa di pomodoro il cui profumo mi è rimasto nelle narici e, naturalmente, ci sarebbe piaciuto molto infilarci a casa sua ad assaggiarla, ma temevamo i rimproveri dei genitori, che erano molto attenti a non lasciarci profittare della generosità di chi già faticava a mettere insieme pranzo e cena. Questa severa proibizione, però, veniva pacificamente ignorata da mio fratello Massimo, che aveva escogitato una valida scusa per non farsi sgridare. Sosteneva, infatti, che la signora Celeste aveva insistito così tanto per offrirgli la fetta di pane con la salsa, che se avesse continuato a rifiutare l’avrebbe offesa e perciò aveva DOVUTO mangiarla.
Poi, quando ci siamo fatti un po’ più grandi e siamo diventati tutti e tre degli abili piccoli pescatori, ogni tanto portavamo alla signora Celeste qualche nostra preda e toccava a lei cercare di rifiutare i nostri pesciolini per il suo gatto o il nostro polipetto.
Ma prima di andare a Positano, c’era sempre un soggiorno più o meno lungo a Ripalta, terra legata alla scoperta dei sapori antichi... la frutta rubata acerba dagli alberi, il giardino di Rocco, che aveva un cespuglio di uva spina che saccheggiavo appena arrivata, il piatto unico dal quale attingevano tutti con la sola forchetta e mangiava di più chi era più veloce, le vecchie tradizioni contadine ed il pranzo semplice dei poveri. Soggetti ad una rigida educazione, quando abitavamo al castello - la bella foto di Stephen Tobin mostra il rosone centrale della chiesa - all'una dovevamo rientrare a casa per lavarci e prepararci per andare a pranzo, anche perché a quell'ora faceva un caldo terribile e i miei temevano che potesse farci male tanto calore. Rientrati al fresco, restavamo a giocare con le tartarughe in un piccolo giardino davanti alla camera da pranzo e sentivamo le mamme chiamare urlando inascoltate Teodorico, Florindo, Leonardo, Peppì... fino a quando disperate si decidevano ad andarli ad acchiappare e a portarli in casa, da dove uscivano immediatamente dopo di corsa con una grossa fetta di pane in mano: a volte pane e zucchero, a volte pane e olio, ma più spesso pane e pomodoro. Lunghe fette larghe un dito tagliate da una pagnotta spesso quasi rafferma, che quelle povere mamme, per le quali anche un uovo era una ricchezza, quando non avevano altro spalmavano con pomodoro con qualche goccia di olio e un pizzico di sale, cosparse di un origano profumatissimo, colto da poco nel bosco lì vicino. Sulla nostra tavola, invece, di poveri bambini ricchi, gli odiati "maccheroni", il secondo, il contorno, la frutta… Non sapete quanto le invidiavamo quelle fette di pane! Oltretutto dopo pranzo noi eravamo obbligati ad andare a riposare, loro invece continuavano a scorazzare e a giocare e noi ci sentivamo esclusi da tutta quella gioia di vivere.
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