
Doveva essere verso la fine degli anni cinquanta, abitavamo ancora nella vecchia casa al secondo piano di via Poerio e zia Anna, che aveva anche lei abitato nel nostro palazzo, invece si era da poco trasferita nella casa nuova che, pur in un’altra strada, affacciava nel nostro viale, e ci guardavamo e ci parlavamo dai balconi. Come ogni anno, era lei che organizzava una grandiosa caccia alla Befana. Ogni volta eravamo più di venti tra cugini di primo e secondo grado, dai venti ai due anni e oltre a noi c’erano figli o nipoti di amici. Una vera orda, che una volta tolti i cappotti, fu invitata a trovare la Befana, che aveva lasciato degli indizi per aiutarci. Potevo avere una decina d’anni e alla Befana già non credevo più, ma c’erano i più piccini ai quali non bisognava rivelare il segreto. Il primo indizio lo trovammo nella capanna del presepe, era un rotolino legato con un nastrino dorato che diceva: La befana è in cucina, le dovete portare un berretto rosso. E tutti di corsa, urlando, a caccia dell’introvabile berretto rosso, che alla fine scoprimmo essere il cappellino di un bambolotto di celluloide seduto in bella vista sul divano della sala da pranzo. Finalmente qualcuno dei più grandi immaginò che potesse andar bene anche quello e raccolto il cappello, tutti di corsa in cucina, dove sotto al tavolo c’era un altro rotolino con un fiocchetto rosso nel quale la Befana ci informava di essere molto stanca e di essere andata a cercare un letto sul quale sdraiarsi. Sempre urlando e correndo ci precipitammo nelle varie camere da letto, ma la terribile vecchina non c’era, c’era invece un altro rotolino con un fiocchetto blu nel quale la Befana ci chiedeva di fare un po’ di silenzio perché non ci avrebbe portato nulla se avessimo continuato a fare tanto baccano. Cominciammo quindi a guardare sotto i cuscini e sotto i letti di ogni stanza finché qualcuno trovò un nuovo biglietto che indicava un altro nascondiglio della befana. Un po’ delusi e stanchi delle tante emozioni e dal correre e gridare ci trascinavamo ormai per la casa con sempre meno foga, finché ad un certo punto di indizio in indizio arrivammo in salotto. La stanza era completamente buia, illuminata soltanto dalla luce che veniva dalla strada e, sotto la vecchia scatola dell’arpa di mia zia lampeggiava una lampadina rossa.
C’erano tante sedie per i grandi e una quantità di cuscini, sui quali fummo invitati a sederci, era tutto un vocio ed un brusio, in attesa di un evento che non sapevamo quale fosse. Improvvisamente, un fischio e la scatola dell’arpa si spalancò e nel buio intravedemmo un'alta figura nera con un'enorme scopa di saggina in mano. I bambini piccoli cominciarono ad urlare terrorizzati ed allora si accese la luce e la vecchia Befana apparve in tutto il suo orrendo splendore. Vestita di nero, con un fazzolettone rosso in testa a coprire i capelli grigi, occhiali grandi, naso adunco, e tanti, ma tanti, bitorzoli sul viso. Grandi e piccoli rimasero senza fiato, conquistati da tanta bruttezza e da quella vocina sottile che ci invitava a star tranquilli, perché la Befana era tanto stanca.
Iniziò così la distribuzione dei regali, per lo più pupazzi di stoffa a forma di elefante, di orsacchiotto, di leone, che incontrarono gli sguardi compiaciuti dei piccoli e l’aria di sufficienza dei più grandi. Sui pacchetti non c’erano i nomi, c’era un bigliettino con un disegno, che veniva mostrato a tutti e bisognava indovinare per chi fosse il regalo. Un enorme piatto di maccheroni era senz’altro per mio fratello, un grande gelato o una mega caramella erano per me, un fumetto “lo so già” indicava mia madre… Insomma, infaticabili e piene di fantasia, le donne della famiglia si erano date da fare per mesi, progettando, disegnando, cucendo, in quelle interminabili serate in cui si incontravano lontane dai nostri occhi curiosi. A quell’epoca, i regali veri li portava papà Natale e poi non si spendevano tanti soldi per i bambini, che ricevevano soprattutto caramelle, carbone e patate… In quegli anni andavano di moda delle caramelle di zucchero con all’interno il disegno di un fiore, dello stesso colore del bordo della caramella. Erano dure come pietre, si attaccavano ai denti e non si riusciva a staccarle se non con complicate manovre, ma erano buonissime, o almeno così mi sembrava, visto che in genere a stento si riusciva ad assaggiarne un paio prima che venissero conservate per essere cacciate in occasioni di visite di altri bambini. Nessuno di noi, per quanto cercasse di capire chi si era vestito da Befana, ci riuscì e solo anni dopo, quando ormai ricordando quelle bellissime feste, parlammo di quella befana venuta fuori dalla scatola dell’arpa, scoprii chi si era prestata al gioco!
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