domenica 5 febbraio 2012

Come fu che divenni proprietaria di un basso

Alla morte di mia madre, decidemmo di vendere la piccola azienda agricola che gestivo con lei, perché ciascuno dei fratelli potesse decidere come gestire la propria eredità. Se fosse stato per me l’avrei tenuta, ma desideravo salvaguardare l’armonia familiare, che sarebbe stata guastata se non avessi accettato di vendere anche io la mia quota, che del resto sarebbe stato costoso e complicato gestire da lontano. Fu così che mentre ancora si svolgevano le trattative con l’aspirante compratore, cominciai a guardarmi intorno, per vedere come investire la mia
parte. Una mattina, che ero andata a misurare una camicia dalla mia sartina e poi avrei dovuto andare a pranzo fuori con mio marito, non essendo ancora l’ora dell’appuntamento, per perdere un po’ di tempo cominciai a parlarle di un camicione che avrei voluto farmi fare, proponendole di andare a misurarlo ad una certa data.
La signorina, un donnino piccolo e tracagnotto, che avrà avuto una sessantina d'anni mal portati, con aria sussiegosa, mi rispose di non potere perché proprio quel giorno aveva un altro impegno. Era una cosa così insolita non trovarla in casa che mi venne spontaneo chiederle cosa dovesse fare e lei mi sussurrò che doveva andare dal notaio. Cosa andate a fare dal notaio, le chiesi io che di solito non sono impicciona, ma che ero incuriosita dal tono un po' misterioso della risposta e lei, sempre sussurrando, mi rispose che andava a stipulare il contratto per l'acquisto della casa dove abitava, un basso di due stanze in una traversa a pochi passi da casa mia. Le feci un sacco di complimenti, ero davvero contenta per lei, che in passato mi aveva raccontato quasi piangendo di aver avuto lo sfratto e di non sapere dove andare ad abitare. E siccome ancora non era ora di andare, le chiesi se volesse dirmi quanto avrebbe pagato. Quando lo seppi mi parve un prezzo bassissimo per la zona, così le domandai se ci fosse qualche altra cosa in vendita. Lei tentennò un poi e poi... "sì, ci fusse n'ata cosa ca se vende, ma nun s'adda sapé" e aggiunse "'a vulite vedé?"
Naturalmente volli vederla e così, uscite da casa sua e girato l'angolo, mi mostrò due finestre che affacciavano su Monte di Dio, dalle quali sbirciammo. L'appartamento era assai più caro del basso della sartina, che mi spiegò che bisognava anche acquistare l'annesso enorme scantinato, condizione irrinunciabile della vendita, soggetta oltretutto a prelazione del Ministero dei Beni Culturali, perché il basso faceva parte dello storico palazzo Serra di Cassano.
L'appartamento era piccolo, ma a pochi passi da casa mia e quindi avrebbe potuto essere la prima casetta di uno dei miei figli. Così le dissi che ero interessata e le chiesi chi si occupava della cosa e lei mi diede un numero di telefono facendomi giurare che non avrei mai detto che me l'aveva dato lei...
Anche a mio marito, sopraggiunto nel frattempo, piacque quel che vedemmo e così iniziammo a cercare di contattare l'agenzia incaricata della vendita.
Facemmo fare a mio figlio una decina di telefonate, il tipo non c'era mai, né richiamava, così persi la pazienza e decisi di occuparmi personalmente della questione e, naturalmente, nel giro di cinque minuti fui richiamata. L'agente immobiliare - che non avrebbe voluto avere rogne con gli aspiranti acquirenti, perché anche lui condomino di quel palazzo - cercò in tutti i modi di scoraggiarmi, fin quando capì chi fossi e allora divenne disponibilissimo e accompagnò mio figlio e mio marito a visitarlo. I due tornarono incantati non tanto dalla casa, quanto dallo scantinato, grandissimo, molto umido, ma che era stata la cava dalla quale avevano ricavato il tufo per la costruzione del palazzo, era già tutto pavimentato e c'erano due profondi pozzi che portavano non si sa dove. Insomma erano affascinati e quanto mai decisi a cercare di prenderlo.

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